Ad un tempo ci si poteva scherzare, ovvero il fatto di prendere in giro, senza malizia, persone adulte o bambini per eccessivo peso o – all’altro estremo – per insolita magrezza era quasi normale.
Era un modo come un altro per sdrammatizzare un fatto che, forse, non era considerato un problema.
O se magari lo era, ma il suo livello di consapevolezza era notevolmente ridotto rispetto a quel che in attuale epoca di social network è sconfinato in un problema identitario, nel senso che ogni rilievo, anche minimo, su un qualsiasi possibile difetto fisico si può trasformare in tragedia.
Si è passati dal successo dell’eccesso, alla sindrome della perfezione estetica immaginaria.
A parte i fiumi di inchiostro e le infinite rappresentazioni cinematografiche che si sono infiammati sul tema della bellezza in generale, nel perenne derby tra “magri contro grassi”, ci si trova oggi a dover sopportare estremismi privi di senso in uno scenario ove “vince” colui che riesce a umiliare il più possibile ogni destinatario di insulti e derisioni, purché scatenati da difetti fisici, presunti o reali, traendo poi soddisfazione dal pregiudizio psicologico che ne consegue in danno alla persona malcapitata.
Il giudicare ripetutamente sul web il corpo di qualcuno, partendo dalla “taglia” fino al più banale dei difetti fisici, è dolosamente orientato a causare vergogna nell’interlocutore allo scopo di metterlo in difficoltà: e questo comportamento altro non è che “bullismo”, già diffusissimo nelle scuole elementari e ormai rivolto anche agli anziani e addirittura ai malati.
I “difetti” più bersagliati sono il peso (per le donne), l’altezza e la muscolatura (per gli uomini) e a seguire l’irsutismo e l’acne (per gli adolescenti), come anche la presenza o meno di tatuaggi o il colore dei capelli: ma se da un lato è vero che esiste un carnefice è soltanto perché esiste una vittima che glielo permette, come si spiega, dall’altro lato, questo incontrollato timore di non poter corrispondere a standard estetici palesemente irraggiungibili?
Le immagini pubblicitarie proposte dalle case di moda e dalle industrie cosmetiche non dovrebbero essere dominanti al punto tale da rappresentare il parametro per eccellenza della vita quotidiana di chi vive nella normalità; eppure, la rete è riuscita ad uniformare il “prodotto umano” sull’impronta predisposta dagli influencers che rappresentano il punto di riferimento principale di coloro destinati a diventare vittime di questo comportamento che può giungere a configurare, nei casi più gravi, i reati di diffamazione, di stalking e di istigazione al suicidio.
Se si è vittima di body shaming , anziché sopportare gli attacchi da chi lo umilia e lo deride per il suo aspetto fisico, deve denunciare il caso e non solo alle forze dell’ordine, ma anche alle numerose associazioni dedicate a questo tipo di piaga sociale al fine di per circoscrivere il più possibile il dilagare di questa prassi incivile e così collaborare attivamente per favorire la sua cessazione.
Da tempo è in corso la lotta al cyberbullismo per prevenire il rischio di depressioni giovanili causate dalla scarsa fiducia in sé stessi per effetto di questo tipo di pressione sociale che porta all’isolamento e a conseguenze talora irreparabili.
Negli ultimi mesi, le cronache si sono occupate di tre casi femminili vittime di body shaming , ove le tre donne note hanno reagito in maniera radicalmente ben diversa l’una dall’altra.
Si è trattato di Giovanna Botteri (giornalista), di Armine Harutyunyan (fotomodella) e di Vanessa Incontrada (attrice).
La prima, nel caso ormai noto come “caso Striscia-Botteri”, più volte criticata per il suo aspetto televisivo non particolarmente curato , ha indotto la presentatrice dello storico programma satirico a dichiarare come “ Giovanna nell’ultimo collegamento da Pechino avesse sfoggiato una nuova pettinatura, quasi a smentire le critiche malevole piovutele addosso”… Si è “scatenato un inferno” in termini di reazione della giornalista che, tramite sindacato, ha formalizzato l’invito a una discussione vera,”… anche aggressiva, sul rapporto con l’immagine che le giornaliste, quelle televisive soprattutto, hanno o dovrebbero avere secondo non si sa bene chi… ».
Giovanna Botteri ha reagito al body shaming verso il suo look sciatto con aggressività polemica.
La seconda, scelta dalla casa di moda Gucci per le recenti sfilate, è una ragazza armena con un viso molto particolare connotato da tratti profondamente diversi da quelli a cui si è abituati nel mondo occidentale, ma, secondo gli haters che l’hanno letteralmente perseguitata, troppo lontana dagli standards di bellezza “canonica”.
La ragazza, dando una formidabile prova di carattere, senza mai scomporsi, si è limitata – sorridendo – ad affermare che “Le persone sono spaventate da quello che è diverso. Non posso impedire loro di sparlare ma io posso ignorarle. Ci sono molti modi diversi di essere belli: consiglio di concentrarsi su di sé, su chi si è e su cosa si ama davvero”.
Armine Harutyunyan ha reagito al body shaming verso il suo viso con pacatezza filosofica.
La terza, da anni sofferente per la linea giovanile perduta a causa della gravidanza e per le continue critiche negative a questa sua trasformazione del corpo, sceglie di comparire nuda sulla copertina di un noto rotocalco con scritto (a nome di tutte le donne “in sovrappeso”?) “ Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu ” rievocando il titolo di una famosa canzone di Caterina Caselli degli anni sessanta per consolidare la sua nuova bellezza decisamente più curvy rispetto al passato.
Alle immaginabili reazioni maschili che apprezzano rotondità femminili è però corrisposta la triste accettazione di sè attraverso l’imprescindibile approvazione degli uomini, che è andata ben oltre l’invito a “volersi bene” ed ignorare il giudizio altrui in base al girovita, nonostante il sovrappeso accumulato del tempo.
Vanessa Incontrada ha reagito al body shaming verso il suo corpo con facile esibizionismo.
E’ quindi evidente che se la forza interiore è superiore alla logica delle apparenze, nessun body shaming potrà ancora colpire più di tanto.
Sono sempre più diffuse le condanne virtuali senza nessun vero processo e certezza del reato.
Possono i Social e il Web decretare una molestia sessuale senza che vi sia un processo reale e delle prove di colpevolezza concrete?
Soprattutto dopo il fenomeno del #metoo , che un paio di anni fa ha infiammato le cronache per molte settimane e che vide condannare molestatori seriali che, per anni, avevano abusato sessualmente di attrici, accade oggi che, con periodicità ormai quasi regolare, qualche vip riceva le stesse accuse da parte di collaboratori.
Questi ultimi, dopo aver subìto per lungo tempo illeciti trattamenti di questo tipo, decidono di allearsi per demolirlo.
#Metoo e la condanna di Harvey Weinstein
La condanna di Harvey Weinstein a 23 anni di carcere per abusi sessuali commessi nel corso degli anni (anche risalenti) fu determinata infatti da una serie di “dichiarazioni” a catena di analogo contenuto da parte di note dive dello spettacolo.
Le attrici, a seguito delle dichiarazioni della prima, si susseguirono per sostenerla, per darne conferma e raccontare poi a loro volta di aver subìto lo stesso trattamento da costui. Spesso anche con dovizia di particolari spesso inquietanti.
I mezzi di comunicazione hanno ha favorito la diffusione della notizia, che comunque meritava le indagini del caso. Hanno generato poi questo gruppo spontaneo di opinione ove le donne sostenevano le attici “confesse” per aver finalmente denunciato personalmente l’assurda modalità maschilista ancora troppo diffusa di “dare per scontata” la prestazione sessuale nel campo del lavoro artistico.
Essa è stata contrapposta a uomini che hanno messo in discussione anche i limiti di liceità del corteggiamento, scatenando una vera e propria guerra tra sessi attraverso i social networks.
Quando la molestia sessuale è decretata dai Social
Tuttavia, va anche detto che, come purtroppo spesso accade, dette circolazioni di notizie sono esageratamente propagate nel web. E così accade che favoriscano la speculazione economica di chi intende maturare danaro da illeciti risarcimenti laddove invece la prestazione sessuale è avvenuta col consenso di entrambi.
Stavolta, sotto i riflettori delle notizie su questo tema “hard” di alto scandalo c’è la figura del trentasettenne stilista di alta moda Alexander Wang. Lo stilista è originario taiwanese ma californiano di San Francisco, enfant prodige del settore, lanciato giovanissimo a seguito di un concorso su Vogue.
Considerato una vera stella nel suo settore, titolare di marchi e responsabile del brand Balenciaga fino al 2013, è stato accusato di aver molestato e palpeggiato diversi ragazzi.
E di aver addirittura messo a disposizione di ragazzi conosciuti, sia in discoteca che dopo gli after party , alcune bottigliette d’acqua «corrette» con sostanze psicotrope. Al fine di generare in loro uno stato confusionale tale da indurre le presunte vittime a compiere attività sessuali con lui.
Alexander Wang, la condanna virtuale senza processo reale
Il tutto sarebbe avvenuto tra il 2010 e il 2019. Ma detti fatti sono tutti da accertare in quanto, al momento, non risultano iscritti procedimenti penali a carico dello stilista perché evidentemente nessuno lo ha denunciato alle autorità giudiziarie.
E’ invece però accertato che, alcune settimane fa, lo scandalo sarebbe partito proprio dai social e poi amplificato dal tam-tam digitale.
Tale tam-tam sarebbe iniziato su TikTok da un suo modello. Quest’ultimo senza fare il suo nome lo ha genericamente indicato come un “noto designer” che nel 2017 lo aveva palpeggiato in un club.
A seguito ciò, molti amici noti e importanti di Alexander Wang lo stanno via via “defollwerizzando”, boicottando anche le sue linee di moda. Di fatto gli stanno infliggendo una gravissima condanna virtuale.
La condanna viene attuata con la moltiplicazione di “storie” su tutti i social che, con fonti anonime, attirano l’attenzione sul caso. Avviene così che si screditi in ogni caso la figura dello stilista, che senza essere imputato sta per essere condannato.
In pratica, siamo in presenza di un caso di giustizia virtuale che corre sul web senza un processo vero per accertare le responsabilità di questa persona.
La domanda finale è: ma se andremo avanti così, fino a quando serviranno ancora i tribunali?